Flussi di Sergio Benvenuto

DISAGIO NEL VILLAGGIO GLOBALE. GLOBALIZZAZIONE E BISOGNO DI DIFFERENZE (1998)06/apr/2017


 

     Si sa che la Verità moderna - che è ovviamente la verità scientifica - parla inglese. Il 62% dei premi Nobel nei campi scientifici - fisica, chimica, medicina - sono stati finora attribuiti a ricercatori americani o che hanno ricercato in America, e il 14% degli stessi premi a britannici. La maggior parte delle riviste scientifiche di prestigio, quelle che entrano nel Citation Index dei periodici che contano e fanno titolo per chi vi scrive, sono in inglese. Il predominio di questa lingua nelle scienze, nell'ingegneria, nell'economia, nelle istituzioni internazionali e nel mondo degli affari è assolutamente incontrastato. Del resto, questo mio stesso intervento è stato scritto in inglese.

     Ma quella che chiamerei l'ideologia premio Nobel non consiste solo nel sancire ufficialmente il predominio della scienza anglo-americana: i Nobel dati per la letteratura e per la pace sono più democraticamente distribuiti tra i vari paesi. Lo scrittore di cose belle e chi opera per il bene (il premio per la pace è il premio etico-politico per eccellenza) non deve essere necessariamente anglofono, può venire anche dall'Asia o dall'America Latina. Morale: oggi una persona seria - di cui un membro di una giuria per il Nobel è l'epitome - pensa che la Verità sia anglofona, mentre il Bello e il Buono sono più equamente distribuiti tra le varie lingue e culture. Da qui il Paradosso del Nobel: da una parte l'universalismo oggettivo della scienza che prospera in poche aree del pianeta (tra San Francisco, Toronto, New York e Oxford), dall'altra il fiorire dei particolarismi etici ed estetici, che però sono più universalmente distribuiti. Da una parte le ristrette patrie dell'universalità dove dilaga il furor sciendi, dall'altra la disseminazione etnica del Bello e del Buono. Anche se molti lamentano la preponderanza della Verità ferrea sulle dimensioni più molli del Bello e del Buono. Il filosofo Michel Serres usa dire "abbiamo oggi fin troppa verità! Piuttosto ci manca più bellezza". Potremmo parafrasarlo dicendo che abbiamo troppa scienza anglo-americana - ci mancano piuttosto le bellezze locali.

 

Il grande svago universale

     Eppure l'Ideologia Premio Nobel è smentita dai fatti: in realtà i modelli anglo-americani dominano anche nelle sfere estetica ed etica. Oggi gli USA smerciano, incontrando sempre meno concorrenza, anche la sola Bellezza che seduca le masse planetarie - con grande disappunto degli intellettuali locali, di solito culturalmente "etnici" o nazionalisti (oggi tutti gli intellettuali del cosiddetto Terzo Mondo paiono ligi alla teoria gramsciana del nazional-popolare). Inoltre USA ed UK promuovono il solo Bene politico che oggi abbia un'aria di decenza. Ogni paese e cultura ha i suoi best-sellers e glorie locali, ma i soli best-sellers e glorie che tutti conoscono nel pianeta di solito - tranne qualche eccezione che conferma la regola - sono anglo-americani. Tutti sappiamo che la famosa globalizzazione con cui tutti si sciacquano la bocca oggi è solo un eufemismo per dire americanizzazione del pianeta. Da una recente inchiesta è emerso che i bambini italiani conoscono non solo Biancaneve e Cenerentola, ma persino l'italianissimo Pinocchio dai cartoons di Walt Disney, e non dal libro del nostro Carlo Collodi. Nel nostro pianeta tutti sono corsi a vedere Titanic, tutti votano un culto a divinità americane come Naomi Campbell, Madonna o Di Caprio, in tutti i continenti si ascolta, oltre alla musica vernacolare del luogo, musica rock anglo-americana. Un amico messicano in visita in Europa mi ha fatto parte della sua delusione: "credevo che voi europei vi occupaste primariamente degli altri paesi europei, invece vedo che siete proprio come noi messicani - vi interessate soprattutto degli Stati Uniti! Voi italiani non sapete quasi nulla di quel che accade in Portogallo, in Danimarca o in Austria, mentre sapete tutto di Chelsea Clinton, di Tyson e di Giuliani." Trent'anni fa quando un italiano andava in Inghilterra o in Russia gli pareva di andare in altri mondi, oggi invece anche a Londra o a Mosca si sente a casa propria. Perché nel frattempo Inghilterra, Russia e Italia si sono parallelamente americanizzate. Solo per questo l'Europa dell'euro è oggi molto più culturalmente unita rispetto a 30 anni fa.

     Qualcuno di voi sbufferà e dirà: perché venirci a ripetere queste cose che sappiamo benissimo? Certo questa anglo-americanizzazione del pianeta è ammessa da molti a denti stretti, ma non è ancora apprezzata nelle sue conseguenze profonde. Proprio perché è così evidente, non se ne tiene conto. Di recente Massimo Cacciari, uno dei più noti filosofi italiani, nonché politico influente e sindaco di Venezia, sosteneva con me che l'Impero americano non è legittimato perché non gode di un'indiscussa autorità morale e culturale. Gli ho fatto notare che per gli americani la loro egemonia, ancor prima di essere politica militare o economica, è culturale. "Sì, gli USA sono un impero che fornisce un sacco di divertimenti!", ha esclamato Cacciari. Per lui il predominio dei modelli politici, scientifici e del costume provenienti dall'America non conta nulla! Anch’egli partecipa di un'idea molto diffusa tra gli intellettuali europei: che l'America domina la cultura del Kitsch, mentre l'alta cultura - che per la nostra tradizione è soprattutto umanistica, filosofica, storico-politica - resta ancora dominata da noi europei, inglesi inclusi. Quasi tutti i bambini imparano le favole attraverso Disney, ma Proust, Wittgenstein, Kundera, Fellini o Stockausen potevano nascere solo nella vecchia Europa. Le masse manipolate e i giovani smarriti sono magnetizzati da Hollywood, dal rock, dal MacWorld, ma l'aristocrazia intellettuale e creativa europea parla piuttosto tedesco, francese o italiano. Agli americani il primato sui poveri di spirito, a noi europei il primato dello Spirito. Ora, tutto ciò poteva essere creduto vero fino a venti o trent'anni fa. Ma ormai gli americani cominciano a primeggiare anche nei campi - come quelli filosofico e delle Humanities – in cui da sempre eccellevano gli europei. Per esempio, ho notato che molti studenti italiani di filosofia, tra i più in gamba, ovviamente tutti formati sui testi filosofici classici greci e tedeschi, flirtano soprattutto con filosofi americani – in particolare con Richard Rorty. Si è ripetuto in questo secolo lo stesso processo che nell'Antichità si produsse dopo che Roma ebbe conquistato la Grecia: all'inizio i romani imitarono i greci, ma ben presto produssero loro la grande cultura del tempo - Cicerone, Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucrezio, Terenzio, Agostino scrissero nel “volgare” latino, non nel nobile greco. Anche la grande cultura umanistica e filosofica nel prossimo secolo scriverà sempre più in inglese. E ben pochi degli intellettuali italiani che fanno discorsi rabbiosi - e chiaramente razzisti - contro gli americani, si rendono conto di questo.

     Qualcuno certo mi dirà che ci sono anche best-sellers non anglo-americani. I latino-americani verranno a parlarmi dei loro fortunatissimi narratori, da Borges a Garcia Marquez; i cinesi mi parleranno di certi film di Yimou e Gong Li; i giapponesi di Kurosawa, del karaoke, del tamagotchi e del sushi. Gli italiani sono fierissimi della loro moda e del loro design. Ma la verità è che di solito artisti o scrittori o stilisti non anglo-americani diventano noti nel mondo perché sono stati adottati dagli americani o dai britannici. Perché entrano nel sistema promozionale e di risonanza dominato dagli anglo-americani. Gli italiani viventi oggi più noti nel mondo - Eco, Cicciolina, Pavarotti, Armani, Zeffirelli, Benigni, Fo e pochi altri - sono personaggi celebri soprattutto negli Stati Uniti.

     Alcuni miei amici francesi, intellettuali di successo in patria, si lamentavano del fatto di essere quasi del tutto ignorati in Italia. Ho detto loro: "Preoccupatevi piuttosto di sfondare negli Stati Uniti. Poi penseranno gli americani a rivendervi a noi italiani".

     Ho seguito l'ascesa della popolarità della pittrice messicana Frida Khalo (tranne in Italia, per ragioni alquanto misteriose). Oggi le sue opere sono celeberrime ovunque. Ma i messicani non sarebbero mai riusciti a suscitare l'interesse mondiale per questo personaggio fuori del comune; solo dopo l'imponente Mostra dell'Arte Messicana del 1990 al Metropolitan Museum di New York, storici, femministe, marxisti, cultural students e decostruzionisti, ovviamente tutti americani, si sono precipitati sulla Khalo. Certo la Khalo era una anti-gringos. Ma i tanti intellettuali euro-continentali, nobili decaduti che disprezzano la “razza americana”, non si rendono conto che l'anti-americanismo è stato in gran parte un'invenzione americana. Il paradigma teorico dell'anti-americanismo fu inventato durante l'ultima guerra dall'americano Ezra Pound, nel corso delle sue trasmissioni alla radio italiana in appoggio a Mussolini. E' stato il tormento di anti-statunitensi come Marcuse, Chomsky, Oliver Stone, Said o Lyotard: essi devono la loro celebrità proprio a quel sistema culturale anglo-americano di cui hanno detto peste e corna. Marcuse divenne un cult negli anni 60, e non i ben più filosoficamente solidi Adorno ed Horkheimer, perché Marcuse, a differenza dei suoi amici francofortesi, viveva negli Stati Uniti e scriveva in inglese.

     Ma allora: che cosa ne è delle nostre tradizioni culturali autoctone in un mondo dominato dalla Verità, dal Bene e dal Bello anglo-americani?

 

Grandezza e miseria dell’utopia turistica

     Pier Paolo Pasolini, poco prima di venire ucciso nel 1975, ebbe il tempo di diffondere attraverso "i giornali borghesi" che lui disprezzava una lamentela che impressionò gli italiani: parlò di una irresistibile omologazione del mondo, e dell'Italia in particolare. Omologazione è un termine quasi intraducibile, quindi non-omologabile. Pasolini, da buon gramsciano, era disgustato dal fatto che si stessero perdendo le fisiognomie culturali delle aree geografiche, e delle classi sociali - anche le facce della gente diventavano tutte omogenee. All'epoca l’americanizzazione del pianeta non era così travolgente come oggi, eppure egli aveva già notato che tutte le differenze si andavano sciogliendo in un'unica brodaglia culturale cucinata dai media. Pasolini aveva sempre denunciato l'esistenza della povertà, ma nel fondo la trovava bella; interpretò il declino della povertà all’italiana come declino della bellezza e della sensualità, soprattutto maschili.

     In effetti tutti noi, anche quando leviamo alte le lodi alla globalizzazione, siamo disturbati dal fatto che si vanno perdendo le differenze. Tutti partecipiamo di una filosofia popolare, tramandataci soprattutto dal Romanticismo, che valorizza le differenze e peculiarità culturali come ricchezze dell'umanità. Si cita spesso l'exception française, di solito per irriderla. Ma anche in Italia in questi ultimi decenni abbiamo cercato di proteggere la differenza italiana in tutti i settori: abbiamo lasciato quasi intatte le nostre città storiche, abbiamo valorizzato i nostri "giacimenti golosi", abbiamo resistito al funzionalismo architettonico internazionale conservando tratti stilistici rinascimentali, abbiamo incoraggiato vernacoli locali e feste immemoriali, come il Palio a Siena o il Sarracino ad Arezzo. Laici e marxisti, che aborrivano la religione cattolica fino a pochi decenni fa, guardano a essa con crescente simpatia come una specialità locale da salvaguardare, al pari dell'arte di cuocere le tagliatelle o di quella di costruire le gondole. Papa Woytila piace a molta sinistra italiana per ragioni fondamentalmente estetiche, perché mantiene vivi riti, feste e credenze medievali.

     Questo bisogno conservativo non è solo italiano, e spiega l'esplosione del turismo. Che cosa motiva milioni di persone a volare fin nello Sri Lanka o alle Mauritius se non la speranza di vedere delle differenze, qualcosa di unico e di locale? Il turismo esotico di massa - compreso il turismo sessuale - è l'aspetto più visibile di questo nuovo mercato delle differenze, in cui la differenza si vende come un bene quasi prezioso, in quanto appare destinato a rarefarsi sempre più. Questo mercato delle differenze produce però effetti perversi: le culture locali, invase dai turisti, tendono a rispondere omologandosi. Ovunque vengono costruiti Hilton, piscine e Jacuzzi, si proiettano film americani e camerieri e venditori parlano inglese e accettano dollari. Il turismo, espressione della nostra crescente sete di alterità, tende inesorabilmente a uccidere quelle differenze per cui esso era esploso.

     Questo spiega perché il cinema di Wim Wenders ci ha impressionato: nei suoi film le città del mondo appaiono a prima vista tutte eguali, vi si respira un'omogenea freddezza, ma allo stesso momento il regista sottolinea alcune dissimiglianze discrete, oblique, che le distinguono, le sole cose ormai che possiamo apprezzare.  E' un cinema che illustra un mondo cosmopolitico dove ormai contano solo le piccole differenze - un cinema di viaggio opposto al turismo (o inaugurale di un nuovo tipo di turismo?). L'industria turistica vende differenze vistose, da cartolina, mentre il viaggiatore wendersiano apprezza piccole differenze che solo un lateral sight riesce a cogliere.

 

Il fascino discreto del cannibale

     Ma d'altro canto il dramma dell'Americanizzazione Globale consiste nel fatto che le differenze turistiche sono le sole infondo che siamo disposti a tollerare. Ovvero, rispetto agli universalismi dominanti - quello delle verità scientifiche e quello della democrazia pluripartitica maggioritaria - siamo sempre più disposti a tollerare un solo tipo di pluralismo: quello estetico, inteso come superficiale. In effetti, se separata dall'etica, dalla politica e dalla verità, che cosa resta dell'estetica se non la superficialità? Le differenze culturali ci appaiono tollerabili solo quando si riducono a differenze che attirano i turisti: peculiarità nelle decorazioni architettoniche e nelle parlate, nel modo di vestirsi, di bere e di corteggiare. Per tutto il resto, a tutti i paesi del mondo proponiamo la società aperta popperiana che scioglie i cristalli delle società chiuse nel brodo cosmopolitico, a tutti proponiamo un'economia mercantile, standard e metodologie della ricerca scientifica dominata dagli anglo-americani.

     E’ vero che questo progetto risale piuttosto ai tre padri fondatori dell’idealismo tedesco – Hegel, Hoelderlin e Schelling. In Aelteste Systemprogramm des deutschen Idealismus scrissero che il regno della libertà si potrà realizzare attraverso una religione sensibile che sarà caratterizzata da “monoteismo della ragione e del cuore, politeismo dell’immaginazione e dell’arte”. Non si poteva dire meglio quel che oggi è cosa fatta: si lasciano fiorire i cento fiori delle fantasie e delle decorazioni, purché il monoteismo del razionalismo e dell’etica anglo-americane stia saldamente al timone.

     Di fatto, quando culture diverse esibiscono comportamenti o pretesi saperi non in linea con i nostri criteri, essi ci indignano. I governatori britannici in India furono indignati dall'usanza locale di uccidere la moglie rimasta vedova, e la proibirono. Si comportarono da imperialisti buoni. Ma tutti siamo ormai imperialisti buoni: condanniamo indignati la clitoridetomia delle ragazze africane, i massacri tribali, e magari anche le corridas. Allora la nostra intolleranza delle differenze - e a ragione, dato che l'Occidente ha sempre Ragione - emerge in tutta la sua veemenza. Si prenda il caso Rushdie, o anche le roventi polemiche in Francia e in Germania se proibire o meno alle studentesse islamiche di mettersi un foulard colorato sui capelli.

     Ogni volta che leggo dei guai di Salman Rushdie, condannato a morte dagli shiiti per un libro, il mio cuore batte per lui. Come non simpatizzare? Anch'io, figlio dell'Illuminismo, vedo in Rushdie un testimone dei valori laici della libertà di coscienza e di stampa.  Ma, dopo aver smaltito la prima passione virtuosa, e mi do agio di ragionare a mente fredda - un filosofo non dovrebbe essere apprezzato per questa sua poco umana capacità di raffreddare il suo cuore? - le cose mi appaiono molto più complicate. 

     In effetti, non sono solo figlio di Voltaire, Kant e Tocqueville, sono anche figlio di Montaigne, Malinowski, Kuhn e Foucault.  Questa seconda ascendenza porta a esaltare le differenze, soprattutto culturali, tra gli esseri umani, come qualcosa non solo da tollerare, ma piuttosto come un patrimonio dell'umanità da valorizzare. E l'Islam che vela le donne è una differenza notevole per noi liberali cristiani. Il discorso politico occidentale, da Locke in poi, si è imperniato sulla tolerance oltre che sulla toleration[2] nei confronti di tutte le alterità. Ma un altro discorso, germinato col romanticismo (e con quel sapere romantico che è l'antropologia culturale), ci spinge piuttosto a lasciarci affascinare dall'altro proprio in quanto altro. Ci porta a esaltare nell'altro - persino nel cannibale di Montaigne, o nel killer Moosbrugger di Musil, o nel Pierre Rivière di Foucault - l'attualizzazione di una potenzialità umana, la stupefacente realizzazione di un sogno o incubo di umanità possibile. Così, la concezione post-romantica oggi dominante nel mondo euro-americano afferma che è essenziale preservare la diversità delle culture in un mondo minacciato dall'uniformità.

     Questa convinzione, del resto, non ci viene solo dal recupero romantico delle origini, delle tradizioni e delle superstizioni, ma anche dal "liberalismo scientifico". In particolare, proprio da due inglesi: Darwin e Mill. Secondo la nuova Bibbia darwiniana, l'evoluzione delle specie avviene attraverso la produzione continua e ininterrotta di mutazioni e ricombinazioni. I mutanti che avranno successo sono solo pochi tra un numero incredibile di varianti, dovute tutte al caso. La fantasia della Natura moltiplica i mutanti in modo che la Natura stessa possa poi selezionare i replicanti ottimali. Su questa falsariga, si è sempre pensato, da Mill fino a Feyerabend, che anche il progresso scientifico sia assicurato dando "darwinianamente" spazio a ogni genere di idee, anche alle più strane ed eccentriche. La quantità pluralistica - e quindi la competizione - è la condizione della qualità progressiva nella vita biologica come nella vita scientifica e artistica.

     Sono stati quindi proprio gli anglo-americani più di qualsiasi altro a convincerci – contro le tentazioni totalizzanti e totalitarie di molto pensiero euro-continentale - della necessità della varietà delle forme di vita. Essi hanno fatto convergere la tradizione romantica e storicista con la tradizione illuminista e positivista sulla conclusione che il pluralismo culturale è condizione essenziale del progresso, così come il pluralismo politico fa progredire le democrazie. Ormai difatti identifichiamo il concetto stesso di democrazia, "potere del popolo", con il pluralismo dei partiti in competizione. Sia la monocultura, sia l'egemonia di una sola teoria, e sia il sistema a partito unico sono tutte cose condannate come antidoti al progresso. Ma il paradosso è che questa cultura che celebra il pluralismo sta diventando la monocultura dominante nel pianeta. La cultura della competizione non compete più per mancanza di concorrenti. La cultura pluralista non tollera chi non è pluralista.

 

Tolleranza per l’irrilevante

     Vediamo più da vicino questo infernale double bind che dà tanta cattiva coscienza alla nostra civiltà americanizzata, ricca, dominatrice e buona. In Italia questa combinazione di razionalismo scientifico, liberalismo democratico, apologia dei diritti umani, ed economia di mercato viene chiamata oggi PUL, Pensiero Unico Liberale, da chi osa opporvisi. Il PUL dice di voler difendere le pluralità culturali, ma ammette una diversità solo estetica tra le culture. Nel fondo, noi occidentali siamo convinti che esista una sola morale ed una sola politica accettabile per tutti: i diritti umani universali ereditati dal cristianesimo, e la democrazia liberale. E questo presupposto scatta ogniqualvolta ci troviamo di fronte a casi come quello di Rushdie, oppure alle ragazze islamiche che indossano il velo.

     Vorremmo far prevalere dappertutto, anche in Vietnam e in Afganistan, il modello della "tolerance per tutte le chiese in uno stato laico". Ciò è un corollario della filosofia britannica, soprattutto di Hume: fatti e valori, ragione e fede, scienza e sentimento, quindi stato e chiesa, costituiscono coppie di opposti eterogenei. La serie di fatti, ragione, scienza e stato non può condizionare la serie di valori, fedi, sentimenti e chiese; e viceversa. La sfera pubblica è regolata dalla ragione computativa dello stato democratico e dal provvidenziale equilibrio degli egoismi utilitaristici. Le religioni e i culti - così come i valori più intimi, il senso da dare alla nostra vita - sono invece cose della sfera privata, appartengono alle eredità emotive delle tradizioni ancestrali e delle eccentricità idiosincratiche. La Gran Bretagna, che ha inventato la Mano Invisibile - cioè la fede nel fatto che la pubblica virtù derivi dall'interazione tra i viziosi egoismi privati - è anche dedita al culto nazionale dell'eccentrico, il cui prototipo fu Oscar Wilde. Ma che cosa resta di una fede religiosa una volta che la si è ridotta a batticuore privato? Che senso può avere l'impegno in valori profondi, se limitati al proprio focolare? Si può essere solo privatamente comunisti, islamici, mormoni o ecologisti? Non ci disturba la scena di tanti mussulmani che si inchinano verso La Mecca esclamando Allah Akhbar - si tratta anzi di uno scorcio suggestivo pieno di colore - ci disturba quando il mussulmano impone il velo alla figlia, o la infibula. Ci va bene la religione altra fin quando essa resta folklore irrilevante o fantasia solitaria.

     La stessa cosa avviene nel caso dei saperi diversi da quelli sanciti dai metodi e dalle procedure scientifiche. E' tolerated che uno creda nell'astrologia o nella taumaturgia, ma se un figlio sta male e il genitore dell’eccentrica famiglia Addams pretende di curarlo con l'astrologia o la taumaturgia, allora finisce tutta la nostra tolleranza. I testimoni di Jehova, che non ammettono le trasfusioni sanguigne, vengono criminalizzati. In questi casi prevale la nostra universalità dei diritti: è obbligatorio che ognuno vada curato secondo i moduli della nostra scienza, perché è il suo diritto come essere umano, anche se appartiene alla famiglia Addams. Per noi, etica e scienza devono essere per forza universali, cioè le nostre - solo le estetiche possono essere particolari, cioè altrui.

 

Scacco delle alternative

     Questa denuncia della falsa tolleranza dell'universalismo euro-americano è diffusa in due aree che appaiono opposte: nell'estrema sinistra post-moderna e nella cosiddetta nuova destra culturale. Nelle due ali finora sconfitte dal liberalismo e dal razionalismo anglo-americani. Ambedue fanno appello al valore della differenza contro l'universalismo dei diritti del PUL. Post-comunisti e post-fascisti si trovano concordi nel segnalare questo double bind dell'universalismo scientifico e liberale. In effetti, tutto quello che ho detto fin qui riecheggia le loro critiche. Eppure mi guardo bene dallo schierarmi con loro. Lo confesso, nella geografia ideologica del mio tempo mi sento un apolide: non mi sento a casa mia nel pensiero liberale anglo-americano, ma nemmeno nel pensiero anti-liberale di sinistra e di destra. Forse, non sono nato per avere una casa.

     Non credo in una politica dei diritti alla differenza, perché la differenza non è una questione di diritti: è un bisogno curvo, e forse una necessità trasversale. E critico tutti coloro che schierandosi - per il PUL o per le differenze - credono di risolvere così la tragica divisione della nostra epoca. Questa divisione ci auto-contraddice continuamente: la nostra benedizione delle differenze è contraddetta dal nostro universalismo dei diritti di ogni essere particolare, e il nostro universalismo etico è continuamente contraddetto dalla nostra negazione dei costumi particolari che trasgrediscono la nostra universalità. Non credo che esista una formuletta politico-culturale per risolvere questo clivaggio tra il discorso universale del PUL e il salvataggio delle differenze importanti. Certo non è risolvibile optando per qualche nostalgico partito comunista oppure aderendo alla nuova destra di Alain de Benoist in Francia e di Marco Tarchi in Italia; ma nemmeno diventando il filosofo agiografo alla corte del PUL, come i poeti mantenuti a corte per cantare le lodi del principe. E certo questa divisione – uno dei drammi più laceranti dell'umanità alla fine del nostro secolo - non può essere risolta con argomentazioni filosofiche. E' una contraddizione nella quale dobbiamo vivere, magari trovando di volta in volta qualche compromesso opportunistico.

     Gli intellettuali radical di prestigiose università americane e britanniche trovano la soluzione della contraddizione in qualcosa del tipo cultural studies. Essi credono nella quadratura del cerchio così come la tentò spesso Michel Foucault: pensare a una battaglia emancipatoria di tutti i “diversi” non sulla base dei valori umanistici universali - fondati sui criteri dell'utilitarismo di Bentham e Mill, e della razionalità scientifica - ma proprio contro l'umanismo universalistico. Un paradosso? In effetti, la nebulosa della cultura post-moderna abita questo paradosso: promuove una lotta universale di rivendicazione delle identità particolariste (sessuali, etniche, culturali, etiche). Ma chi non è “diverso” è disposto ad accettare la diversità solo sulla base dei criteri universalistici dell’umanismo. Personalmente non ho una grande simpatia per questa cultura delle "identità differenti", perché cerca anch'essa di ignorare la contraddizione in cui prospera. Una gaffe politica di Foucault mi pare emblematica: la sua campagna a favore della rivoluzione khomeinista nel 1978-79. Una rivoluzione che per prima cosa avrebbe messo al muro gli omosessuali e i post-moderni come lui. Mi pare che tutto il movimento dei cultural studies, Women Studies, Queer Theory, Gay Studies, Ethnic Studies, ecc., rimuova il double bind in cui sguazza, garantendoci abbagli del tipo di quello di Foucault con Khomeini.

     Un eminente rappresentante dell’opposizione al PUL è Noam Chomsky, che considera gli Stati Uniti una "superpotenza terrorista". Eppure che cosa fanno gli Stati Uniti - a parte difendere, come qualsiasi altro paese, i propri interessi - se non cercare di imporre a paesi orgogliosi delle loro differenze i principi universalistici a cui Chomsky profondamente aderisce? Non crede anche Chomsky nei diritti umani, nel razionalismo scientifico, nella democrazia a suffragio universale? Tutte cose in cui non crede Saddam Hussein, per esempio, e che per questo viene bombardato dalla "superpotenza terrorista". Il socialismo ci appare oggi fallimentare proprio perché esso condivide fin troppo i principi universalisti di cui l'"imperialismo americano” si fa il gendarme. Non a caso Marx preferì vivere a Londra, allora capitale del capitalismo mondiale – oggi, scommetto, vivrebbe a New York, non a La Havana. La variante socialista è stata ormai risucchiata dal PUL. Perciò le vere opposizioni al PUL oggi provengono piuttosto da alterità impresentabili, che chiameremmo "barbariche" se fosse politically correct chiamarle così: fondamentalisti religiosi, totalitaristi, ripulitori etnici, populisti demagogici.

 

     Insomma, gli avversari del PUL dovrebbero arrendersi all'evidenza che non abbiamo alcun modello da proporre in alternativa come migliore di quelli anglo-americani. (Così come non abbiamo ancora nessun modello di scienza da proporre in alternativa alla tecnoscienza oggi dominante - con buona pace di tanti scienziati romantici, come Thom, Prigogine, Chaitin, Latour, Capra, Kauffman, ecc.) I paesi dell'Europa continentale avevano, oltre al comunismo, alcune varianti locali diverse da questo modello. L'Italia aveva fino a pochi anni fa un sistema elettorale proporzionale, grazie a cui sopravvivevano piccoli partiti che esprimevano i distinguo di frange - spesso molto interessanti - dell'elettorato. Uno degli uomini politici italiani più lucidi e influenti, Ugo La Malfa, è stato leader di un partitino che non ha mai raggiunto il 5% dei voti. Avevamo quello che oggi tutti spregiativamente chiamano assistenzialismo, e che era una forma modernista di carità cattolica: vale a dire, impiegare molte persone del Sud in lavori improduttivi pur di farli mangiare. Oggi anche l'Italia corre verso il sistema maggioritario tipico di UK ed US, come rimedio all'instabilità politica del paese. Circola da noi una vignetta: "L'Italia è davvero un paese straordinario! Ma vorrei che fosse semplicemente un paese normale". Anche noi italiani siamo stanchi di essere eccezionali, abbiamo una divorante voglia senile di normalità - vogliamo americanizzarci, come tutti.

     Negli anni 80 e 90 i paesi detti allora Tigri Asiatiche opposero al modello anglo-americano i loro valori asiatici. Di fatto, questi valori asiatici si risolvevano nell'interdizione del pluralismo politico, nella censura sulla stampa, nell'asservimento della giustizia al potere politico - cose che ci sembravano molto europee, fino a non molto tempo fa. Per decenni i trionfi economici del Giappone avevano terrorizzato gli americani, perché erano basati su valori opposti a quelli dell'American way of life - erano basati sul conservatorismo, sul conformismo, sul paternalismo industriale, sulla famiglia solida, sulla lentezza. Negli anni '90 si è avuto il crollo dei modelli asiatici. Ormai non abbiamo più scelta. Anche in economia, il solo modello proponibile è quello anglo-americano: individualismo, flessibilità, mobilità, tasse basse, nessun protezionismo. L'Italia, che si sarebbe trovata a suo agio piuttosto con un modello conservatore di tipo giapponese, si deve adeguare.

     Anche i vari tipi di comunismo e di fascismo si offrirono come alternative al PUL: quanti oggi onestamente se la sentono di consigliare comunismo e fascismo a qualsiasi paese come alternative? Posso capire la simpatia “privata” per le ultime isole che non si arrendono al PUL: Castro e i Taliban, gli ayatollah iraniani e la monarchia rossa nord-coreana, Gheddafi e Milosevic. Ma chi di noi si augurerebbe di vivere sotto uno di quei regimi?

     Non c'è quindi alternativa all'etica, alla politica e alla scienza dell'Occidente, in particolare anglo-americano? La combinazione vincente elaborata dai filosofi britannici due-tre secoli fa - liberalismo mercantile + razionalismo scientifico + suffragio universale - è la formula verso cui ormai dovrebbe orientarsi l'umanità intera? Questo assetto sarebbe altrettanto irreversibile di quelli prodotti dalla rivoluzione neolitica o dall'invenzione della scrittura. Il dominio assicurato dalla scrittura dette origine ai grandi imperi autocratici e gerarchici – da quello egizio fino a quello russo. La rivoluzione tecnologica del XX secolo imporrebbe a tutti la democrazia anglo-americana fondata sul razionalismo scientifico e il libero mercato. Impera la religione popperiana, che ha i suoi apostoli, come George Soros. Certo, ancor oggi sopravvivono popolazioni senza scrittura, tribù giusto agli inizi della rivoluzione neolitica. E' così probabile che ancora per qualche secolo avremo sacche di resistenza più o meno estese al PUL e al razionalismo scientifico: fondamentalismi monoteistici, populismi descamisados, nazionalismi chauvinisti, comunismi tropicali. Queste sacche talvolta faranno paura ai nostri annoiati concittadini, faranno esplodere alcune bombe o lanceranno qualche missile sgangherato, ma non conteranno nulla. Anche Saddam Hussein conta meno di Monica Lewinski. La grande Storia verrà fatta dai paesi che, in un modo o nell'altro, si conformeranno ai modelli etici, politici e scientifici che gli anglo-americani hanno (più degli altri) creato. Probabilmente si tratta di un'omologazione irreversibile. Eppure credo che il mio compito di intellettuale sia quello di mantenere l'apertura verso l'altro, per quanto questi sia impresentabile. Di limitare l'uniformizzazione.

     Noi intellettuali, soprattutto euro-continentali, che cerchiamo di resistere attraverso un po’ d'ironia al monopolio dei modelli anglo-americani, siamo tollerati e talvolta anche vezzeggiati come i nani e i buffoni nelle corti rinascimentali: incarniamo una spassosa differenza, un'inoffensiva devianza, in modo che per contrasto risalti l'aulica bellezza e normalità del Signore, il PUL. Chomsky o i communitarians americani mi ricordano irresistibilmente certi stortignaccoli dipinti da Velasquez nel tetro splendore dell'Escurial.

     Che argomenti abbiamo quindi contro questa crescente omologazione culturale? Non argomenti razionali - non sono tali i rabbiosi anatemi di comunisti, fascisti e fondamentalisti. Abbiamo solo un'esigenza ad un tempo etica ed estetica, vale a dire viscerale: quella di salvare la dimensione della possibilità. Abbiamo bisogno di un mondo vario, non ci piace che tutta l'umanità venga messa, in fila indiana, su un solo ragionevole binario. E' importante, per noi “romantici”, che l'umanità abbia ancora accesso a delle scelte, anche se sbagliate. Non vogliamo restare chiusi nella società aperta popperiana. Se tutti crederanno nelle stesse cose e agiranno nello stesso modo, allora l’umanità si sarà piegata finalmente al dictat della necessità. C'è una sola risposta plausibile al PUL: non proporre alternative più razionali al razionalismo, ma scoprire e incoraggiare possibili differenze. La pluralità e la differenza sono anche una sfida metafisica: sono la prova del fatto che c’è della libertà nella vita umana, che l’uomo non è solo il prodotto della necessità.

 

Il sorriso degli infelici

     Qualcuno dirà: perché questo bisogno spasmodico di differenze e di possibilità? Solo perché le differenze sono una condizione del progresso? Certo un effetto perverso del trionfo del Progresso è che, nella misura in cui schiaccia le differenze come oscurantismi, prepara un futuro senza più progresso – dato che il progresso, abbiamo visto, si nutre di differenze. Ma dopo tutto, ci interessa davvero il progresso? E' vero, una volta inventati i computer, non ne possiamo più fare a meno, ma saremmo vissuti benissimo anche senza. In poche ore un aereo ci porta in qualsiasi parte del globo, mentre Goethe ci metteva settimane per raggiungere Roma - ma forse oggi dovremmo sbarcare sulla luna per trovare un'alterità commovente come quella che Goethe trovò in Italia.

Forse che il progresso ci ha resi più felici? Pochi osano sostenerlo. Gli svedesi e gli svizzeri sono certo tra i paesi più "felici" del mondo: altissimo reddito pro capite, da secoli non fanno guerre né hanno avuto razzismi sanguinosi, godono di un'ampia libertà politica, di un elevato livello culturale, non sono afflitti da slums e povertà. Eppure chi pensa mai a svedesi o svizzeri come a persone specialmente felici? I loro tassi di depressioni, malattie mentali, suicidi, divorzi e consumi di droga sono nelle medie dei paesi classificati infelici dagli esperti mondiali della "qualità della vita". Invece, alcuni che hanno passato un po' di tempo fra popolazioni poverissime, affette da carestia e da pellagra, ci hanno assicurato che spesso quella gente è felice. Ridono e si divertono quanto gli svizzeri e gli svedesi, anzi più di loro. Il lato del progresso è incommensurabile con la diagonale della felicità. Questo era del resto il succo del messaggio delle filosofie antiche, per non parlare di quelle orientali: non è risolvendo problemi che si è più felici. La felicità, caso mai, consiste nel non dare alcun rilievo ai problemi, nel non preoccuparsi di risolverli. Quindi, non abbiamo veramente bisogno del progresso - piuttosto ne subiamo il fascino e il predominio. Il progresso è una droga dolce-amara a cui non riusciamo a rinunciare. Abbiamo constatato che progredire scientificamente è oggi molto più facile che essere felici - e per pigrizia abbiamo scelto la via più facile. Il progresso tecnico-scientifico ci consola del nostro scacco nel raggiungere la felicità.

     Ma allora, se non è per amore del progresso che ci teniamo alle differenze, perché ci teniamo tanto? Perché un mondo variopinto è più felice? Sarebbe stupido crederlo. Se al mondo omologato preferiamo le differenze - anche se queste possono comportare lacrime e sangue - è perché non possiamo rinunciare al sogno inguaribilmente romantico di poter essere diversi da quello che siamo. E' quello che propose un baciapile nevrotico come Kierkegaard: l'importante è salvare il senso della possibilità. Un mondo rassegnato a una necessaria felicità non potrebbe essere il mio.

 

Il teatro della crudeltà delle differenze

     Allora, se non è giustificato dagli imperativi del progresso o della felicità, non c'è della crudeltà in questo nostro bisogno romantico di differenza? Non è cinico questo nostro desiderio che non tutti gli esseri umani vivano nella noiosa e confortevole tolleranza anglo-americana? Un mondo pieno di differenze è un mondo dove possono prosperare inferiorità, dolore, diseguaglianze ingiuste, esclusione di alcuni. Se la differenza implica spesso rischio e dolore, parteggiare per le differenze significa quindi accettare il dolore tragico del mondo? Nietzsche lo aveva detto: bisogna dire sì al tragico. Ma oggi nessuno di noi - dopo Hitler, Stalin e Pol Pot - può essere decentemente nietzscheano. Oggi tutti, assieme a Rorty, non possiamo accettare la crudeltà. L'inno alla guerra "igiene dell'umanità" cantato da Marinetti, o l'orrendo augurio di Che Guevara "due, tre... cento guerre del Vietnam", non possono essere più rimessi in circolazione. Nel mondo dominato dal liberalismo razionalista l’intellettuale ha perso il privilegio di parlare solo ai propri pari: deve rendere conto ai contribuenti anche del suo bisogno di tragico. Ma come poter conservare la dimensione tragica della vita e della storia, e nello stesso tempo cercare di diminuire la crudeltà che prospera in un mondo certo ancora pieno (per sfortuna?) di differenze?

     Gli esperimenti radicalmente alternativi al modello anglo-americano - comunismi, fascismi, teocrazie, fondamentalismi - hanno prodotto crudeltà. E' vero, anche le democrazie liberali sono state crudeli, come a Dresda e ad Hiroshima nel 1945, o nel Vietnam. Ma la crudeltà anglo-americana è stata sempre giustificata dalla lotta contro le crudeltà dei totalitarismi. Comunque le democrazie liberali in questo secolo non si sono mai fatte guerre tra loro, i paesi totalitari invece spesso e volentieri.

     Io sono molto grato a russi, cinesi, albanesi, cubani, vietnamiti, ecc., perché hanno fatto, volenti o nolenti, da cavie della storia. Occorreva che qualcuno si sottoponesse all'esperimento perché l'umanità si arricchisse di un'evidenza nuova: che il socialismo è ancora peggio del capitalismo.  E' vero che prima dell'esperimento alcuni economisti e filosofi avevano argomentato che il socialismo non poteva funzionare; ma erano buoni anche gli argomenti di economisti e filosofi marxisti. Occorreva che quell'idea venisse calata nella storia reale per poter decidere. Come nelle scienze, anche nella storia occorre effettuare esperimenti - solo che si tratta di esperimenti fatti con la pelle e il sangue di milioni di esseri umani. Perciò noi occidentali ci facciamo il segno della croce per aver scampato il nobile destino di cavie sperimentali della storia.

     Quindi, l'identificazione umanitaria con chi soffre entra in contraddizione con la rivendicazione sia romantica che darwiniana delle differenze e del pluralismo. Come disse Gore Vidal, "perché qualcuno abbia successo, occorre che qualche altro fallisca". Perché una teoria scientifica, una forma politica, una credenza religiosa venga selezionata dalla storia come la più adatta, occorre che tante altre teorie scientifiche, forme politiche e credenze religiose vengano spazzate via. Il che significa in molti casi vite fallite, generazioni sacrificate, màrtiri inutili, amari disincanti. La selezione storica, come quella biologica, è spietata. I terribili conflitti provocati e vinti dal liberalismo non sono in sintonia con gli ideali liberal dei diritti civili e della ricerca individuale della felicità.

     Allora, c'è speranza per le differenze? Suppongo di sì: la differenza è come una vecchia talpa che scava sotto il suolo dell'omologazione, e poi d'un tratto appare alla superficie. Certe vecchie grandi differenze scompaiono, ma delle nuove appaiono alla luce del sole, anche se spesso non le riconosciamo ancora. Il lavoro della differenza è spesso silenzioso e obliquo, e si segnala solo attraverso una struggente ironia nel nostro modo di rassegnarci all'omologazione. Anche questo mio piccolo contributo, nella misura in cui non propone soluzioni universali ma prende atto ironicamente della dissoluzione delle vecchie differenze, testimonia di questo interminabile travaglio.

 



 

    [2]La differenza tra toleration (come semplice sopportazione della diversità) e tolerance (inteso come un atteggiamento profondo di accettazione della diversità) è stata valorizzata da Michael Walzer.

 

Flussi © 2016Privacy Policy