Flussi di Sergio Benvenuto

LO "SVANTAGGIO PRIMARIO" DELLA NEVROSI. NOTE A UN SAGGIO DI C. CASTELFRANCHI (1998)12/mar/2017


Sergio Benvenuto

 

     Il testo di Castelfranchi (Il nevrotico cripto-utilitarista: contro l’ideologia del ‘vantaggio secondario’, “Sistemi intelligenti”, 1998) è una chicca di scrittura teorica soprattutto perché lascia intravvedere molti più concetti di quanto l’articolo non ne esponga esplicitamente. Resta ovviamente il dubbio: fino a che punto l’autore stesso è artefice consapevole di questo eccesso di senso rispetto a quello che scrive? Nel caso che egli dica molto di più di quanto egli stesso non vorrebbe, allora la sua parziale mancanza di controllo sul proprio testo ne costituirebbe appunto il fascino.

     La sua critica all’interpretazione di sintomi nevrotici chiaramente disfunzionali - del resto, se non fossero disfunzionali non verrebbero percepiti come nevrotici - in termini di vantaggio secondario è certamente condivisibile, ma rivela una prospettiva molto più ambiziosa: Castelfranchi intende contestare niente di meno che certi presupposti utilitaristi della teorizzazione - e quindi anche della pratica psicoterapica - del cognitivismo corrente. La sua tesi, così come la articola esplicitamente, ha un sapore provocatorio: “Lo scopo stesso [dell’azione dis-funzionale] può essere riproposto non dal successo ma dall’insuccesso o dal danno prodotto [da questa azione](...). [Il soggetto] è rinforzato dal fallimento non dal vantaggio secondario.” Insomma, ipotizza che un fallimento anziché dissuadere un soggetto da un comportamento, al contrario lo rinforza; detto così, è la basic assumption dell’utilitarismo che viene messa in questione. Quindi Castelfranchi pare prospettare una teoria cognitivista non utilitarista. Del resto, nel titolo stesso riprende un termine così tipico della tradizione marxista come quello di “ideologia”: la tesi del vantaggio secondario, in quanto basato su presupposti utilitaristi, sarebbe appunto ideologia, cioè falsa coscienza. Suppongo che la falsa coscienza sia quella dell’utilitarismo, della filosofia che è alla base di tutte le teorie capitalistiche e preponderante nella cultura (capitalistica) americana e quindi, ipso facto, nelle scienze cognitive dominate dalla cultura americana. Uno come me (che non ha mai creduto nell’utilitarismo) non può che compiacersi - lo ammetto - di questo approccio.

     Eppure quando Castelfranchi passa agli esempi concreti, confesso di rimanere deluso. I casi da lui portati - “carceri e delinquenza”, “cartacce per strada”, “ostilità crea ostilità”, “la cura sbagliata”, “la paura della rabbia del marito” - non sono all’altezza delle promesse teoriche iniziali e finali, non tanto perché siano esempi ormai classici, tratti da un repertorio ben noto grazie alla fortuna dei terapisti comportamentali, sistemico-relazionali, cognitivisti, ecc. (si possono anche riproporre esempi ben noti con un’ottica del tutto nuova). Ma in quanto essi non mi sembrano intaccare quei presupposti utilitaristi che in un primo momento Castelfranchi sembrava voler mettere coraggiosamente in discussione. Gli esempi mi paiono abbassare le ambizioni di fondo del testo. In fin dei conti, Castelfranchi finisce col proporre non una revisione sovversiva dei presupposti utilitaristi, ma tutt’al più un miglioramento, certo sofisticato e pertinente, dell’approccio utilitaristico standard. Se prendo una medicina ma continuo a star male, posso interpretare la cosa come (a) la medicina è inefficace e quindi occorre che smetta di prenderla, o (b) occorre perseverare con quella medicina proprio perché il male si rivela più forte di quanto non credessi, e quindi occorre magari aumentare la dose. E’ quello che capita molto spesso con le psicoterapie che non funzionano: alcuni pazienti concludono che (a) “la psicoterapia specifica o questo specifico psicoterapista sono un flop e quindi occorre che mi rivolga altrove”, altri invece che (b) “le mie resistenze sono più forti del previsto, e quindi occorre che continui ad libitum questa psicoterapia finché il terapista non sarà riuscito a infrangere le mie massicce difese”. L’interpretazione (b) sarebbe alla base del persistere “demoniaco” nel sintomo spiacevole (o nella psicoterapia, inefficace): il fallimento dell’azione la riproporrebbe. Ma non vedo come la possibilità interpretativa (b) sconvolga l’assetto utilitarista: si tratta solo di una credenza erronea sulla forza causale di qualcosa, non di una crisi degli scopi utilitaristi del soggetto.

     Per utilitarismo intendo il presupposto secondo cui l’azione umana, e quindi anche le forme di vita nevrotiche, sono totalmente spiegabili sulla base del perseguimento da parte di ogni individuo della massimizzazione del proprio piacere e/o felicità. E’ il presupposto che ispira la Costituzione americana, che garantisce a ogni suo cittadino la ricerca personale della propria happiness, qualunque siano i suoi desideri e credenze. Ma il punto è che certi comportamenti - compresi quelli evidentemente altruistici e certi comportamenti nevrotici - paiono sfidare questo presupposto. E’ tutta l’area di vita che, dopo i greci, qualifichiamo di tragica. L’utilitarismo e anche il cognitivismo non sono tragici, perché non ammettono che gli esseri umani possano derogare dalla loro ricerca della felicità e/o del piacere, chiamata oggi “vantaggio personale”; essi non ammettono che il soggetto alla ricerca della propria happiness o del vantaggio sia diviso, che ci siano insomma più soggetti entro uno stesso individuo, che il soggetto A ad esempio punti alla felicità essendo buono e altruistico, mentre il soggetto B punti alla felicità essendo cattivo ed egoista. Questa divisione del soggetto, su cui Freud (a partire da Sofocle e Shakespeare) ha puntato tutte le sue carte, era il presupposto di tutti i grandi autori tragici. Sia Amleto che l’anima buona del Sezchuan di Brecht sono soggetti divisi, e sfuggono quindi ai presupposti utilitaristi. Amleto è per lo meno due soggetti, perciò non agisce come dovrebbe: un Amleto è coraggioso, attivo e persino furbo, un altro è invece “malinconico”, vile, passivo e ingenuo. La bella Shen The di Brecht ha una doppia personalità: buona e generosa in certe ore del giorno, cattiva e avida in altre ore del giorno.

     Nella nostra epoca si sono confrontati due modelli (occorre vedere fino a che punto inconciliabili) della soggettività umana: da una parte quello utilitarista, dall’altra quello tragico. Quali dei due preferisce Castelfranchi? Anch’egli, un po’ come Amleto, in questo testo pare oscillare. “To be or not to be... a true cognitivist?” Perciò il suo saggio è così godibile. Gli auguro però di non fare, sul piano teorico, la fine di Amleto.

 

     Non a caso verso la fine del suo saggio Castelfranchi parla di “demoniaco”. Egli dice “il comportamento è proprio ‘destinato’ al fallimento o al male, è funzionale o goal-oriented a fallire o al male”, e incalza:

 

[I]l male nell’agire umano si riproduce demonicamente da sé e in quanto male. Non ha bisogno di camuffarsi da bene: neppure le ‘tentazioni’ (tornaconti) sono sempre necessarie. Questo perché l’uomo non lo sceglie, non sceglie gli effetti cattivi: essi agiscono e si riproducono da sé, parassitariamente, grazie alla ‘mano invisibile’ (popolarmente: ‘zampino’). [...] E’ vero che l’uomo sceglie o segue quello che gli sembra il meglio o buono, ma per fargli operare il male non è necessario presentarglielo come o coprirglielo con un bene.

 

Frasi del genere paiono ispirate da Sofocle o da Shakespeare (e certo da Leopardi, citato da Castelfranchi) più che da Chomsky o Elster, malgrado le sue precauzioni esplicative cognitiviste. Esse sono perfettamente in linea con il tipo di riflessioni che hanno portato Freud a parlare di “pulsione di morte” - tesi che Castelfranchi aveva già criticato (con quanta ragione!) come tautologica, ma verso cui tuttavia lo portano le sue leopardiane ragioni del cuore. La risposta teoretica di Freud è certo poco convincente, ma la sua domanda era giusta (prova ne sia che Castelfranchi la ripropone) ed è la domanda che si pone ogni psicoterapeuta quando, passati gli anni dell’entusiasmo onnipotente giovanile, si trova confrontato con una dimensione, un resto, un margine, comunque lo si voglia chiamare, che chiamerei l’angolo tragico (o leopardiano) di ogni sofferenza umana: in pratica, il fatto che tutte le più belle e intelligenti teorie e tecniche (siano esse cognitiviste, psicoanalitiche, sistemico-relazionali, ermeneutiche, ecc.) in certi punti si infrangono contro una roccia durissima, che Freud chiamò coazione a ripetere qualcosa di spiacevole. A quel punto non solo Freud, ma qualsiasi terapeuta, sospetta del demoniaco, vale a dire una scandalosa preferenza degli esseri umani per il dolore e il fallimento. Del resto è quello che sperimentano molte persone dopo che, per una qualche ragione, hanno subito un guaio: si mettono in condizione di far succedere subito dopo almeno un altro paio di guai. E’ il fondamento del proverbio “i guai non vengono mai soli”. Da dove viene questo bisogno degli esseri umani di allungare la serie degli scacchi, come se la propria vita fosse entrata in una sinfonia mesta con la quale restare armonicamente coerenti?

     Non dimentichiamo che il punto di partenza filosofico e metodologico di Freud era praticamente lo stesso di quello dei moderni terapeuti cognitivisti: vale a dire l’utilitarismo di Bentham e Mill. Egli lo aveva interpretato come Lustprinzip (tradotto in modo scorretto come “principio di piacere”): egli partiva dal presupposto che ogni essere umano tendesse spontaneamente (per ragioni biologiche, anzi idro-meccaniche) a evitare il dispiacere, a diminuirlo, e in questo evitamento consisteva il suo Lust (a un tempo il suo piacere, e la ricerca piacevole del piacere). Sulla base di questa falsariga Freud ha potuto interpretare anche le produzioni spontanee di sofferenza - ad esempio, gli incubi notturni, o le inibizioni nevrotiche - come strategie di Lust, cioè, direbbe Castelfranchi, come “funzionali”, e la loro funzione sarebbe la massimizzazione del piacere, che per Freud coincide con la minimizzazione del dispiacere. Eppure Freud anziano scrive “Al di là del Lustprinzip”, cioè prende atto del fatto che non tutto nell’agire umano dipende dal principio di desiderio-piacere, che l’essere umano non è fondamentalmente utilitarista, che c’è in lui qualcosa di demonico (anche lui è tentato da questa espressione) o anche di assurdamente tragico.

     In “Al di là del Lustprinzip” - un saggio che la maggior parte dei freudiani rifiuta, proprio perché tocca certe questioni troppo cruciali (e imbarazzanti) della pratica psicoterapica - Freud si mostra impressionato da certi giochi infantili dove il bambino ripete metaforicamente qualcosa di spiacevole per lui (ad esempio, l’assentarsi della madre). Da dove proviene questa “coazione a ripetere” atti non solo piacevoli - il che sarebbe del tutto comprensibile - ma anche qualcosa di sostanzialmente spiacevole? O meglio, che cosa rende piacevole la ripetizione dello spiacevole, come avviene nelle rappresentazioni tragiche ad esempio?

 

Le manifestazioni della coazione a ripetere (...) rivelano un alto grado di pulsionalità, e, quando sono in contrasto col principio di piacere, possono far pensare alla presenza di una forza “demoniaca” [corsivo di Benvenuto]. A proposito del gioco infantile ci pare che il bambino ripeta l’esperienza spiacevole anche perche’ se è attivo riesce a dominare molto meglio una forte impressione di quanto potesse fare quando si limitava a subirla passivamente. [...] Questa stessa coazione a ripetere ci si presenta dunque come un ostacolo terapeutico quando, alla fine di un’analisi, cerchiamo di indurre il malato a staccarsi completamente dal medico; e possiamo supporre che se coloro i quali non hanno familiarità con l’analisi provano un’oscura angoscia - la paura di svegliare qualcosa che secondo loro sarebbe meglio lasciar dormire -, ciò che essi temono è in fondo la comparsa di questa coazione demoniaca.

 

La coazione a ripetere è demoniaca perché essa si ripete anche quando non ha alcuna funzione edonistica, quando essa cioè non produce più alcun Lust. Anche Castelfranchi, pur non essendo psicoterapeuta, usa il termine parassitariamente: il parassita è un elemento aggregato a un organismo che non fa gli interessi dell’organismo, ma i suoi propri. Coazione a ripetere, parassitismo, demoniaco, “mano invisibile” (volta al male e non al bene): tutte metafore per dire questo scacco non solo del terapeuta, ma del principio utilitarista in ogni cura.

     Il punto fondamentale a cui si trovano confrontate tutte le psicoterapie (analitiche o cognitive o altre) è proprio questo: l’(apparente?) trionfo del male negli individui (la loro assurda, irritante ricerca dello scacco) è in ultima analisi riducibile a strategie utilitariste della massimizzazione del piacere e/o della felicità, o dobbiamo ammettere un limite invalicabile di ogni strategia utilitarista, un margine tragico negli esseri umani? E se lo si ammette, in che cosa consiste questo margine non-utilitario, da dove esso proviene, perché esso esercita una tale fascinazione su certi esseri umani, in particolare sui nevrotici? Queste erano le domande a cui Freud cercava di dare disperatamente una risposta - le stesse domande che si pone Castelfranchi.

     Dico questo anche se poi le risposte di Castelfranchi tendono a riconfermare il presupposto (qualcuno, più cattivo, direbbe il dogma) dell’utilitarismo psicologico. Ad esempio quando scrive: “quindi l’azione disfunzionale, e anche la condotta nevrotica, hanno certamente un obiettivo, un vantaggio in vista (salvo che non siano di tipo impulsivo)”. Trovo questa esclusione parentetica, marginale, dei sintomi impulsivi particolarmente significativa. In effetti, questa esclusione lascia fuori una serie non indifferente di psicopatologie, a cominciare dalle nevrosi ossessive, che pure hanno attirato tanto l’interesse degli psicopatologi. La peculiarità del soggetto ossessivo consiste nel fatto che vive le coazioni come appunto prive di qualsiasi senso funzionale realistico, del tutto sprovviste di qualsiasi vantaggio utilitario per sé o per gli altri.  O meglio, il solo vantaggio ammissibile è che se il soggetto tentasse di resistervi (ma se trovasse la forza o l’indipendenza mentale per resistervi, già, in fondo, non sarebbe più tanto un ossessivo) allora starebbe certo molto peggio di quanto non accada ottemperando alle ingiunzioni coattive.

     Ma si può andare anche oltre, e chiedersi se in tutto ciò che di solito etichettiamo come psicopatologico non ci sia dell’”impulsivo” o del coattivo. Persino nei casi - non propriamente psicopatologici - che Castelfranchi porta come esempi. Si prendano ad esempio i casi di addiction, nei quali di primo acchito il principio utilitarista della massimizzazione del piacere pare non porre problemi: evidentemente si usa una sostanza tossica per il piacere che essa procaccia, e non si riesce più a rinunciare a questo piacere anche quando risulta evidente che il costo per procurarselo diventa esorbitante. La strategia edonista sembrerebbe qui indiscutibile. Il punto è che i tossicodipendenti che raggiungono un certo livello di assuefazione sono concordi nel dire che assumere la sostanza da cui dipendono a un certo punto non dà loro praticamente più alcun piacere. A un cocainomane in stato avanzato sniffare la sua dose giornaliera di coca fa più o meno l’effetto di una tazza di caffé, forse anche meno. Eppure non è possibile rinunciarvi. Gli addicts sottolineano che il piacere iniziale dato dalla droga era una specie di esca: poi la Droga - che tendono a personificare - non ha più alcun bisogno di concedere al suo assoggettato uno straccio di piacere per tenerlo asservito; la Droga può ormai chiedere tutto senza più dare in cambio nulla. “Ma tutto ciò - si dirà - è trasfigurazione poetica; di fatto, il tossicodipendente è costretto ad assumere la sostanza per evitare una sofferenza maggiore”. Nelle forme avanzate di dipendenza, il vantaggio perseguito non consiste più in un vantaggio positivo, ma solo negativo: evitare una sofferenza devastante. Ma il punto è: a un certo punto si assume una droga solo per evitare sofferenze, oppure la sofferenza minacciata è il trick grazie a cui il soggetto si sottomette a una regola o legge, quella per cui egli DEVE assumere quella droga? Il punto essenziale di divergenza tra le psicopatologie fondate su presupposti utilitaristi e psicopatologie fondate su altri presupposti è proprio questo.

     Si prenda il caso, ben descritto da Castelfranchi, della moglie che rende ancora più geloso il marito perché vuole evitare baruffe con lui. Castelfranhi ha il merito di porre delle domande su questo caso, anziché fornire risposte preconfezionate e collaudate. In effetti tutte le terapie - di tipo sistemico-relazionale, ma anche cognitivistico - che trattano casi del genere, partono dal presupposto che la moglie timida e reticente non è masochista (il masochismo è un concetto tautologico che non ha corso in questo tipo di approcci): essa appare piuttosto cognitivamente cieca agli effetti dei propri atti. Basta convincerla a cambiare strategia, mostrandole quanto il suo comportamento sia perdente e oneroso, e si può star sicuri che la signora cambierà musica. Non escludo che in molti casi basti aprire gli occhi a certe persone, per far loro abbandonare un atteggiamento fallimentare. Ma questo basta in tanti altri casi? E siamo sicuri che alla base della reticenza della signora ci sia solo una miopia cognitiva, l’ignoranza di certe conseguenze comportamentali? E se ci fosse invece del compulsivo anche in questa signora? Ad esempio, molte persone si rifiutano di prendere un aereo anche dopo che le si è convinte della bassissima probabilità di un incidente aereo, soprattutto se paragonata alla maggiore probabilità di incorrere in un incidente autostradale. Eppure non si decideranno mai a prendere un aereo, mentre non avranno problemi nell’affrontare lunghi viaggi automobilistici. In questi casi, come diceva Pascal, il cuore ha le sue ragioni (in questo caso, una fifa viscerale) che la Ragione non conosce. Analogamente, la moglie può perseverare in un comportamento pur sapendo - magari grazie agli uffici di un bravo psicoterapeuta - che quel comportamento la porterà dritta al divorzio. E perché mai? Il buon senso direbbe che “la signora non è coraggiosa”, che come tutte le persone pavide preferisce rimandare il confronto, rischiando di aggravarlo in un futuro prossimo. In piccolo, la moglie in questione pare riprodurre la strategia catastrofica di Francia e Gran Bretagna nei confronti di Hitler, che portò al trattato di Monaco e poi alla guerra: per evitare il confronto armato con la Germania, la si rafforzò, in modo che quando poi il confronto si rivelò inevitabile, la Germania risultava ben più forte dell’inizio del processo. E’ quella che gli americani chiamano la chicken structure. Ma forse la “strategia” della signora-pollo non era nemmeno una strategia: forse lei mancava di una capacità biologica - che ha anche il suo corrispettivo psicologico - che da che mondo è mondo si chiama coraggio, che i greci chiamavano andreia (il cui prototipo era il coraggio militare). Oggi diremmo che la signora manca di grinta; il suo problema, insomma, è una certa viltà. Le spiegazioni utilitariste sono sofisticate e spesso convincenti, ma scotomizzano una dimensione biologica che pure è evidentissima in tutte le specie animali. Ad esempio, la lotta tra due individui di una stessa specie (per il controllo di un certo territorio, o per la conquista di una femmina) solo di rado giunge a uno scontro reale, e si limita a parate di forza in cui prevale il più coraggioso, chi appare più deciso e minaccioso. E’ la debolezza - relativa a un altro individuo - qualcosa di patologico? Oppure, qualcosa che dipende da un errore o miopia di ordine cognitivo? O la debolezza relativa è parte della “natura umana”, una conseguenza del fatto insomma che non siamo tutti eguali per coraggio e altre virtù?

     Osservazioni simili si potrebbero fare per ognuno degli esempi portati da Castelfranchi. Si prenda il caso della pena di morte. Siamo davvero sicuri che i sostenitori della pena di morte - in numero crescente in un paese pur così “cognitivo” come gli Stati Uniti - siano tali per una credenza erronea? Ormai non si contano libri, articoli, trasmissioni, ecc., tesi a dimostrare l’inefficacia della pena capitale come deterrente del crimine. Se tutti questi sforzi persuasivi non bastano per far cambiare idea a masse di persone, è perché in queste agiscono probabilmente spinte ben diverse da argomentazioni del tipo “lo spauracchio di perdere la vita dissuaderà molti dal commettere crimini”. Sospetto che moltissime persone siano agitate da una pulsione di vendetta[1] che possiamo considerare (almeno in parte) biologicamente radicata. Anche quando si osservano bambini di due o tre anni, si vede che alcuni di loro hanno una carica vendicativa molto più forte di altri (resta aperta la solita questione se queste differenze dipendano da fattori costituzionali, “caratteriali” come si diceva un tempo, o da una storia psicologica, per quanto precocissima). Mi capita ogni tanto di parlare con persone favorevoli alla pena di morte, e ne ho tratto l’impressione che le argomentazioni di tipo cognitivo che esse portano sono delle evidenti razionalizzazioni: mi appare chiaro che sono persone che mancano di compassion, una qualità psicologica che oggi più che mai, nel discorso politico anglo-americano, assume un’enorme rilevanza (un liberal, un leftist, è oggi identificato con uno che ha compassion). Si tratta di persone che non perdonano né vogliono perdonare, non solo i criminali, ma chiunque altro (di solito, diranno che i disoccupati sono solo lazy, e non si vede perché dargli un’allocazione di welfare). Fingere di credere nell’efficacia deterrente della pena di morte è parte di quella che già da tempo è stata descritta come personalità autoritaria; sia che questa personalità dai tratti vendicativi sia il risultato di processi socio-educativi, oppure di una spontanea propensione psico-biologica a preferire la legge del taglione, comunque essa risulta qualcosa di “viscerale”. Salta agli occhi: di fatto i propugnatori della pena di morte godono (anche se non lo ammetteranno) nel vedere esseri umani friggere sulla sedia elettrica. La svista cognitiva mi appare più come un tentativo di razionalizzazione di questo godimento che come la causa di esso.

     Ma posso invocare esempi anche più “cattivi”, perché toccano le convinzioni etico-politiche di ciascuno. Uno come me che da decenni ha abbandonato il marxismo vede nel fallimento delle varie “vie al socialismo” la prova che il socialismo non funziona, che è un’utopia perché produce società tutto sommato peggiori di quelle capitaliste. Ovviamente il marxista non interpreta gli stessi fatti nello stesso modo: il fatto che le varie varianti di socialismo - sovietico, cubano, cinese, cambogiano, jugoslavo, albanese, nicaraguense, ecc. - siano fallite per lui non dimostra il fallimento dell’idea socialista nella sua globalità. Si è tentati di invocare qui il modulo di Castelfranchi, di uno scopo riproposto dall’insuccesso o dal danno prodotto, come nel caso della medicina inefficace che si continua a prendere proprio perché inefficace: il comunista di oggi pensa che il fallimento dei socialismi totalitari dimostri non il fatto che il socialismo porti inevitabilmente al totalitarismo, ma il fatto che occorra tentare finalmente un socialismo non autoritario né totalitario[2]. Ciò che viene interpretato dal non-marxista come implicazione tra socialismo e totalitarismo, viene interpretato dal marxista come necessità di disgiungere finalmente socialismo e totalitarismo. Personalmente trovo molto più verosimile - cioè più realistica - l’inferenza del non-marxista, ma ammetto che le due interpretazioni, o punteggiature logiche degli eventi, sono logicamente equipossibili. E allora, in fin dei conti, che cosa porta a preferire l’interpretazione marxista oppure quella non-marxista, dato che entrambe sono logicamente ineccepibili? Non valutazioni cognitive, ma passioni politiche emozionanti, opzioni viscerali che risalgono spesso all’infanzia o all’adolescenza, tropismi etico-affettivi profondamente radicati nella propria storia personale. In generale, gli individui - come del resto le teorie scientifiche, secondo l’ipotesi Duhem-Quine[3] - sono inclini a un’alta vischiosità cognitiva: i fatti che potrebbero invalidare le nostre credenze vengono reinterpretati in una chiave logica che conferma le nostre credenze di fondo. Ma ciò che conta è la tendenza pulsionale omeostatica (più forte in certi individui che in altri, e che si rafforza man mano che si invecchia) che anche Freud aveva messo in evidenza quando parlava di “vischiosità della libido”: la tendenza degli organismi, delle teorie e dei soggetti a rifiutare di mettersi in questione. Alla base di certe distorsioni cognitive non ci sono insomma processi cognitivi, ma impulsi che hanno una base biologica, a-cognitiva, e che dipendono dalla storia dell’individuo o del suo gruppo.

 

 

     La petitio principii di Castelfranchi è che il criterio darwiniano dell’adattamento debba valere in ogni tipo di spiegazione dei comportamenti umani. (So che la posizione di Castelfranchi non è funzionalista nel senso dell’adattamentismo o dell’utilitarismo stretti, nel caso suo si tratta di un funzionalismo sofisticato, che parla di auto-organizzazione e auto-riproduzione, e non teme di fare appello al finalismo; ma qui mi limito a criticare quanto c’è di funzionalista, in senso classico, nella specifica argomentazione di questo suo saggio).

     Eppure oggi certa ricerca biologica ci dice che, pur senza abbandonare alcuni presupposti fondamentali del darwinismo, il criterio adattativista a ogni costo non ci porta lontano. E cioè: non tutto nell’organismo (e possiamo quindi anche supporre nel comportamento) delle specie animali è funzionale, serve l’adattamento dell’individuo o della specie, piuttosto dobbiamo dare spazio alle cause puramente strutturali. Si prenda l’esempio dato da S. Gould di due tratti sessuali, la cui funzione biologica ha per gli esseri umani valori del tutto diversi: i capezzoli nel maschio umano e la clitoride nella femmina dei mammiferi[4]. La loro esistenza non dipende da uno sviluppo storico adattativo, ma da pre-condizioni strutturali: dallo sviluppo embrionale dei mammiferi, che determina in una prima fase ogni embrione come bisessuale. I capezzoli maschili sono la traccia di un seno femminile che lo sviluppo embrionale ha bloccato, così come la clitoride è l’abbozzo di un pene che lo sviluppo embrionale ha bloccato. Ora, è interessante che Freud tentò a suo modo una sorta di embriologia psicologica dello sviluppo sessuale (in particolare in Tre saggi sulla teoria sessuale): le varie fasi dello sviluppo libidico (fasi a predominanza orale, anale, fallica) secondo lui non erano propriamente l’effetto di una dialettica storica del singolo individuo, ma fasi geneticamente prestabilite nello sviluppo umano, un po’ come è prestabilito lo sviluppo dell’embrione. Anche se la descrizione di questo sviluppo sessuo-libidico da parte di Freud resta del tutto ipotetica, è interessante che egli abbia adottato qui un punto di vista strutturale e non funzionale (estraneo al Lustprinzip). Mi chiedo se la sua opzione di fondo non abbia ancor oggi una validità, visti gli sviluppi delle scienze dell’evoluzione.

     Solo considerazioni di tipo strutturale possono forse gettare un po’ di luce su fenomeni come, ad esempio, l’omosessualità e il mancinismo. Sono “preferenze” che interessano una minoranza degli esseri umani, ma che ogni considerazione di tipo funzionale stenta a cogliere. E’ significativo difatti che nel corso di questo secolo la valutazione sia dell’omosessualità che del mancinismo come patologie sia stata abbandonata. In effetti, non si vede alcuna funzionalità (alcuna utilità per l’individuo o per il gruppo) nel fatto che nelle attività manuali prevalga la parte destra del cervello piuttosto che quella sinistra, o l’inverso. Quanto all’omosessualità, essa appare addirittura del tutto disfunzionale rispetto all’esigenza della riproduzione umana. Il perpetuarsi dell’omosessualità in una parte, per quanto ristretta, della popolazione crea difficoltà serie a tutte le teorie adattativiste forti: non si capisce perché col passare del tempo l’opzione omosessuale non venga eliminata nel processo di selezione (dato che evidentemente gli omosessuali si riproducono molto meno degli eterosessuali). Non sappiamo se duemila anni fa ci fossero più omosessuali di quanto non ce ne siano oggi, se cioè l’omosessualità sia un tratto poco adattativo destinato col tempo a essere eliminato; in realtà, la frequenza di comportamenti omosessuali tra i primati ci fa pensare che l’omosessualità sia un’opzione sempre possibile per i mammiferi, che essa sia insomma una componente intrinseca della pulsione sessuale, che il comportamento sessuale manifesto può manifestare o meno (nella maggioranza dei casi non lo manifesta). Per fare un paragone che forse scandalizzerà i linguisti, possiamo dire che l’omosessualità è parte di una struttura profonda della sessualità, un po’ come la grammatica profonda chomskiana, che alcune lingue manifestano in modo più o meno esplicito, ed altre lingue (come il cinese) non manifestano affatto. Considerazioni simili potrebbero valere anche per il mancinismo. In altre parole, una volta scartata l’ipotesi patologica della lesione cerebrale, le considerazioni strutturali si impongono su quelle funzionali anche nel caso di comportamenti “psicologici” come il mancinismo o l’omosessualità (e persino nel caso dell’orgasmo clitorideo). La differenza tra questi comportamenti minoritari e tratti sessuali secondari come i capezzoli del maschio o la clitoride è che in questo secondo caso conosciamo perfettamente lo sviluppo embrionale, e quindi possiamo asserire con un buon margine di sicurezza che si tratta di organi la cui causa è strutturale (non adattativa), mentre lo sviluppo del desiderio sessuale e quello della predominanza degli emisferi cerebrali ci sono del tutto ignoti, possiamo solo congetturarli. Freud, come abbiamo visto, provò a congetturarli, e mi dispiace che oggi ben pochi arrischino congetture sulla stessa linea. Gli psicologi oggi paiono ipnotizzati dal modello funzionalista e utilitarista, a dispetto dei suoi limiti evidenti.

     Tutto questo détour per clitoridi, mancini, capezzoli, omosessuali, ecc., mi serve per gettare appunto qualche dubbio sull’autorità indiscutibile del modello funzionalista nel caso delle psicopatologie nevrotiche o psicotiche. Capisco che gli psicoterapeuti preferiscano un approccio funzionale perché questo promette loro margini di intervento più ampi: se una nevrosi dipende da fattori strutturali, appare più ardua, meno lineare, o addirittura disperata, la possibilità di un cambiamento terapeutico.

 

 

 

     Personalmente, credo - come Castelfranchi - che l’utilitarismo sia troppo arrogante (Castelfranchi direbbe “ideologico”) in quanto il suo presupposto è troppo forte. Alcune teorie sono inaccettabili in quanto troppo deboli, ma altre sono inaccettabili in quanto troppo forti. Possiamo certo ammettere senza problemi che ogni essere umano punti alla propria felicità (o a massimizzare il piacere), ma appunto, questo criterio è troppo onnicomprensivo. Se è vero che l’anacoreta digiunando nel deserto persegue la propria felicità non meno del Don Giovanni che si gode donne e champagne, è pur vero che questo criterio non ci dice molto sul perché e sul come gli esseri umani perseguano questa felicità in modi così drammaticamente diversi, se non opposti[5]. C’è qualcosa di derisorio nella vittoria di Pirro dell’utilitarismo: è così universalmente esplicativo che ci fa perdere quel che ci interessa di più, vale a dire le differenze spesso abissali nei modi di perseguire il proprio utile. E’ facile accettare del resto il principio cognitivista secondo cui le azioni umane dipendono dagli scopi e dalle credenze dei soggetti - ma è quanto mai interessante chiederci perché i soggetti varino tanto non solo per le loro credenze (il che dipende da fattori ambientali facilmente ricostruibili) ma anche e soprattutto per i loro scopi. L’utilitarismo, e il tipo di cognitivismo che ne discende, incontra il proprio limite proprio nella sua eccessiva forza[6]. Mi si permetta di confessarlo: se mi si dimostrasse in modo indubitabile che il cognitivismo utilitarista riesce a curare con successo il 99% delle psicopatologie, penserei che l’1% che vi sfugge è la parte epistemologicamente più interessante. Il che appare provocatorio, ma è in fondo un’ovvietà: anche la fisica newtoniana spiegava il 99% del nostro sistema solare, tranne appunto una minima irregolarità nell’orbita di Mercurio. La fisica di Einstein ha trionfato su quella newtoniana proprio perché riusciva a spiegare quel dettaglio.

     Prima si parlava di certi tratti - dalla clitoride all’omosessualità - che non possono essere spiegati in termini funzionali di adattabilità ambientale, ma solo in termini “sintattici”, come tracce di processi biologici che hanno certe loro “regole” del tutto indipendenti dai vantaggi adattativi degli individui. Forse occorre acquisire questa mentalità sintattica - cioè non completamente utilitarista e adattamentalista - anche nella spiegazione delle psicopatologie e delle “sociopatologie”. Il nuovo modello psicopatologico potrebbe essere allora proprio l’addiction a qualsiasi cosa: una sostanza tossica (o anche una traccia mnestica, perché poi di questo si tratta: si ricorda il piacere dato da un’esperienza e si sente il bisogno di ripeterlo) formatta o inizializza - se mi si permettono questi termini informatici - l’esperienza in modo tale che un soggetto è costretto a rispettare questa formattazione. Se il soggetto prova a ribellarvisi, verrà punito, per così dire, con scariche di dispiacere. Questo è evidente nelle nevrosi ossessive, che non a caso si articolano sul terreno di una personalità ossessiva: una sorta di regola implicita (di cui sarebbe interessante ricostruire la formazione) formatta il comportamento, e questo senza alcuna considerazione del principio di piacere o di utilità del soggetto. O meglio, il principio utilitaristico è attivato solo in negativo, come minaccia di una punizione. Gli esseri umani, che l’utilitarismo ci descrive come tutti astuti commercianti dediti a massimizzare i loro utili, appaiono invece in larga parte (non dico certo completamente: la mia ipotesi non si vuole epistemologicamente imperialista) programmati da un software, da sistemi di regole e implicazioni che finora le teorie psicoterapeutiche (nessuna esclusa) stentano a ricostruire nella loro pregnanza.

     Ad esempio, da un secolo la psicoanalisi insiste a descrivere il comportamento coattivo come un conflitto ambivalente: l’Uomo dei Topi di Freud da una parte ama la fidanzata, dall’altra la vorrebbe morta stecchita, il che spiega i suoi bizzarri comportamenti oscillatori, i “rituali” insensati a cui si sente costretto. Tutto è ridotto a un conflitto tra affetti, manca il riferimento a un software, a una sorta di programma implicito (nemmeno tanto inconscio) che domina la vita del soggetto. Mia madre, che pure non era ossessiva, era una donna incapace di mentire. Le poche volte che si trovava costretta a mentire (di solito a fin di bene) si faceva scoprire subito: sbatteva le palpebre in modo strano, incepiscava in modo caratteristico nelle parole. Come spiegare questa inibizione alla menzogna con criteri utilitaristi? L’ipotesi più semplice è che mia madre era stata programmata a dire sempre la verità, e i suoi tentativi di deviare da questa regola-programma venivano pagati con dei sintomi, che vanificavano gli scopi della menzogna. In generale, l’uomo etico kantiano, che bada a fare il proprio dovere solo perché è il proprio dovere (non perché ne tragga qualche utile), ammesso che esista, farà il proprio dovere perché è stato regolato da questi princìpi. Diventerà nevrotico solo quando cercherà di trasgredire il suo programma kantiano.

     Penso a quell’avvocato americano, Roy Cohn - evocato nel dramma-fiume di Tony Kushner Angels in America - che aveva perseguito in giudizio molti omosessuali e si considerava un conservatore puritano, ma che poi è morto di AIDS a seguito di esperienze omosessuali nelle quali indulgeva (e disse "sono un eterosessuale normalissimo che di tanto in tanto va a letto con gli uomini"). Nulla ci fa pensare che questo signore fosse in malafede: funzionava a due livelli, che secondo lui non interferivano. Poteva ammettere di avere rapporti omosessuali, ma non “era” omosessuale. Ho conosciuto molti alcolizzati che mi dicevano: “E’ vero, bevo; ma non sono alcolista”. Così, l’agire omosessuale di Roy Cohn e il suo agire ispirato all’omofobia non coincidevano, come due programmi che agiscono indipendentemente nello stesso computer, senza interferire mai l’uno nell’altro.

 

 

     Indubbiamente l’insistenza della psicoanalisi sulla dimensione affettiva, sulla “visceralità”, col tempo aveva rimosso la dimensione cognitiva della vita umana, il fatto cioè che gli esseri umani “danno i numeri” proprio in quanto sono (o mirano a essere) agenti razionali. Oggi il successo dei modelli cognitivi rischia di operare una rimozione eguale e contraria della visceralità (che la psicoanalisi che va per la maggiore riduce oggi al feeling, alle emotions). Credo che una psicoterapia saggia dovrebbe evitare entrambe le scotomizzazioni. Io stesso però non ho idea di come essa potrebbe essere, anche perché di solito non apprezzo il mero eclettismo.

     Sul piano teorico, la vera differenza tra prospettiva analitica e prospettiva cognitivista consiste nel fatto che la seconda tende a ristabilire l’unità del soggetto che la prima aveva messo radicalmente in questione. Per Freud l’individuo - l’atomo, l’indivisibile - è di fatto “dividuo”, divisbile in vari agenti o agenzie. E’ come lo stato moderno, diviso tra poteri tra loro articolati ma indipendenti (legislativo, esecutivo, giudiziario - e mediatico, e culturale). Si può certo contestare la lista delle agenzie proposta dalla psicoanalisi, ma mi pare ancora valido il suo tentativo di descrivere il soggetto come “dividuo”, come diviso tra vari agenti. Anche perché mi pare in sintonia con l’approccio della moderna biologia. Ho portato prima l’esempio della clitoride: in effetti, la sessualità femminile risulta epistemologicamente così interessante oggi perché la donna appare dotata di una doppia sessualità - una femminile (detta vaginale) e un’altra maschile (detta clitoridea), che possono più o meno armonizzarsi o invece entrare in collisione. Analogamente, le pretese del “gene egoista”, come lo chiamano i sociobiologi, entrano spesso e volentieri in collisione con le necessità dell’io egoista che mira solo a sopravvivere e a godere. E’ strano che questa divisione del “dividuo” in istanze e pulsioni, cosa scontata in biologia, non penetri nelle scienze cognitive.

     D’altro canto però nemmeno la psicoanalisi corrente è in grado di andare molto oltre nello spiegare quel che Freud era stato costretto ad attribuire a una mortifera coazione a ripetere. Il limite della psicoanalisi è che essa vede il conflitto unicamente al livello del rapporto tra pulsioni e oggetti (o tra fantasie pulsionali e oggetti), in una dimensione puramente duale tra passioni soggettive e oggetti da esse investite. La psicoanalisi è in crisi perché ha difficoltà nel vedere il conflitto nevrotico come conflitto o tensione o sfasatura tra programmi, benché questo conflitto o tensione o sfasatura sia evidente in certe patologie, come appunto le ossessioni o le tossicodipendenze. Mi pare che le psicoterapie sia cognitivste che psicoanalitiche siano troppo soggettiviste (o puntano troppo sulla mente, o puntano troppo sulle pulsioni fantasticanti) e ignorino la dimensione delle regole, dei linguaggi, dei programmi, della “sintassi” in generale. Mi auguro che sorga una teoria psicoterapica che affronti finalmente i problemi degli esseri umani partendo dal fatto che in ognuno di noi agiscono e si esprimono diverse forme di vita, ognuna con la propria logica, e fra loro probabilmente incommensurabili.

 

 



[1]A proposito uso qui un termine dal sapore psicoanalitico, pulsione (Trieb in Freud), proprio per sottolineare una dimensione biologica, congenita, endogena, che molti psicoanalisti oggi (più o meno influenzati da un approccio cognitivista) vorrebbero eliminare sempre più dalla psicoanalisi. Penso invece che nel richiamo a pulsioni biologiche non-cognitive consista la forza del contributo freudiano.

 

[2]Quanto poi all’attuale collasso della Russia capitalista, anch’esso viene interpretato in armonia con i propri paradigmi di base: l’anti-marxista mette questo fallimento sul conto proprio del retaggio comunista più che sul conto dei fallimenti del capitalismo (“il comunismo e’ durato troppo a lungo in Russia, perciò la Russia ha difficoltà particolari nell’entrare in una forma di vita capitalista”); per il marxista invece ciò dimostra che la formula capitalista non funziona sempre e con tutti, e che c’e’ spazio per nuovi esprimenti socialisti (“un’economia lasciata ai puri meccanismi del mercato crea mafia e bancarotta”). Ma anche qui le due opzioni interpretative - o cognitive, se si preferisce - dipendono da quello che chiamerei il tifo etico-politico. I criteri che portano a valutare politicamente il mondo non sono molto diversi dai criteri che portano a valutare il gioco in relazione alla propria squadra del cuore.

[3]Questa tesi asserisce che di fatto i fatti nuovi riscontrati non portano mai subito ad una confutazione del paradigma teorico su cui si basa un sistema scientifico: la comunità scientifica tende ad integrare i fatti recalcitranti risistemando gli aspetti non centrali del sistema scientifico.  La scienza ha una tendenza conservatrice: ogni paradigma si comporta come un’azienda che invece di chiudere quando va in rosso, tende a ristrutturare soprattutto le filiali per far fronte alle nuove esigenze del mercato.  Secondo questa tesi (ormai prevalente tra gli epistemologi), una certa dose di dogmatismo è salutare all’impresa scientifica, evitando che le teorie accreditate vengano continuamente rimesse in questione.

 

[4]Stephen Jay Gould, “Capezzoli maschili e glande clitorideo” in Bravo Brontosauro, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 125-139.

 

[5]Per restare a questi due esempi paradigmatici, nemmeno in questo caso ce la possiamo cavare con la spiegazione banale secondo cui agiscono due diversi assetti cognitivi, che insomma l’anacoreta crede che l’ascesi sia il modo di guadagnarsi la felicità del Paradiso, mentre Don Giovanni (in particolare quello di Molière) è ateo. La nostra epoca ha ampiamente mostrato che degli atei che non credono affatto nella vita eterna sono capaci di sacrifici e abnegazioni estremi, mentre i credenti oggi si distinguono spesso per comportamenti edonistici. Le differenze etiche hanno basi più profonde delle differenze di credenza.

[6]Il che non deve stupirci più di tanto: anche Gödel mostrò che il limite invalicabile dell’assiomatizzazione formalista di Hillbert consisteva proprio nella sua forza, nel fatto cioè che essa era troppo perfettamente definita.

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